Tutti hanno il diritto di giocarsela. Non mi pare un dramma, ammettere che qualcuno possa avere una mano fortunata, senza che a nessuno venga in mente di escluderlo, per questo, dal tavolo.
A chi abbia giocato a briscola, è certamente capitato di imbattersi in quei fenomeni della concentrazione che, indubbiamente, esistono. Quelle persone, se avranno abbastanza tempo da dedicare al gioco da permettere che si verifichino tutte le probabilità possibili, favorevoli o sfavorevoli, vinceranno di sicuro, alla fine, perché la briscola è così: vince chi non sbaglia e gioca sempre la miglior carta tra le carte possibili.
Le persone di cui parlo non sbagliano mai. Riescono, in qualunque stato emotivo, pure febbricitanti o doloranti, a conservare la freddezza necessaria, non a ridurre il margine di errore, come è in uso tra i mortali, ma a non commetterne affatto.
Tuttavia, ti renderai conto, indipendentemente dalle loro qualità, a volte pèrdono.
La briscola, come molti giochi di questo tipo, come molte attività ludiche e non, in generale, ha i suoi momenti, si sa, che non dipendono dal sangue freddo dei giocatori. La qualità della giocata, in senso puramente estetico, ma anche in merito a efficacia, rilevanza per gli altri, abbia o meno modo di apportare prestigio al giocatore, lustro all’evento o piacere, vantaggio o giovamento agli astanti, dipende da molti fattori, in primis dal tempo a disposizione e dalla provvidenziale dote di saperlo interpretare e incarnare al meglio… di conseguenza, molto dipende dalla tempestività, dal tempismo; in una parola, anche se non esiste, se non in riferimento all’insieme dei fattori casuali di cui è somma, dalla fortuna.
Un bravo giocatore sa che potrebbe non vedere un asso per dieci mani di fila e non può negare di provare piacere nel pescare le briscole giuste, pur riconoscendo che non dipende da lui, ad esempio.
Quel giocatore, l’assoluto controllo del caso, non ce l’ha… e lo sa bene.
Perderà molte partite per colpa delle carte sbagliate… sfortunate, si potrebbe dire. Troverà avversari che lo batteranno, temporaneamente, senza neppure sapere perché, immaginando doni naturali, destini propizi e qualità divine. Essi si sentiranno fieri, consapevoli di aver battuto un campione, ma ignari dell’esistenza di ideali di qualità tecnica, totalmente impreparati alla vittoria, animati dall’incoscienza infantile del neofita, quando a malapena comprende che, in certi casi, vincere è inevitabile, se l’altro perde.
Ci sono campi in cui la fortuna è praticamente ininfluente, in cui chi è più bravo vince sempre o, almeno, finché non arriva uno più bravo… come gli scacchi. Vi sono anche specialità che si basano solo sul caso, come la tombola. La maggioranza delle attività cui ci si può dedicare in vita, tuttavia, subisce l’influenza del caso in modo variabile. Bisogna sapere che, se è inutile sperare che la fortuna duri, è anche impossibile essere i più bravi per sempre, perché le qualità necessarie spesso hanno bisogno di formarsi adeguatamente, prima, ma sono anche soggette a deterioramento, poi. Così, si è i migliori a tempo determinato, fino a che il nostro apice sarà superato e il primato avvicinato, più o meno, da altri, nel frattempo arrivati all’apice della propria forma.
La bravura, come la fortuna, dunque, è soggetta a fasi… c’è la miglior forma, per la bravura e la fortuna del principiante. Possiamo quindi sostenere che la bravura sconfiggerà sempre la fortuna, solo se ci sarà il tempo di farlo.
Chi non capisce questo è destinato a soffrire molto più del necessario, perché c’è un tributo inevitabile di sofferenza anche per chi lo sa, è vero, una specie di tassa… ma chi non lo sa, pur bravo o, a tratti, fortunato, dovrà soccombere.
Se tutti avessero presenti le basilari leggi sui grandi numeri, la rilevanza statistica dei casi a favore e contro, a parità di possibilità, probabilmente nessuno combatterebbe certe guerre perse, contro lotterie e giochi di sorte in cui solo il banco può vincere, in fondo. Esiste tuttavia, dentro alcuni di noi, l’insana idea, pur corretta, matematicamente, che giocarsi una sola possibilità su svariati milioni di possibilità contrarie, anche se inverosimile a realizzarsi, sarebbe comunque una possibilità a favore in più, rispetto a chi non se la giochi.
Schierarsi tra quelli che lo ritengano un comportamento sciocco e avventato non impedisce di ammettere che, ogni tanto, qualcuno, tra queste persone, tuttavia, vince, per un poco, anche in modo considerevole.
Alcuni, tra quei vincitori, ebbero fortune tanto rilevanti, pur immeritatamente, che fu inutile far loro notare le tavole attuariali. Poiché era l’unica cosa da fare, in molti si inchinarono. Vi furono vite consumate tanto in fretta da non svelare mai l’altra faccia della medaglia e per essi, la fortuna di una sera non fu mai compensata dalla sfortuna.
Se si considera poi che ognuno di noi conosce almeno un caso contrario, di persone che, immeritatamente, furono destinatarie di cumuli di sfortuna tanto gravosi da farle crollare prima di godere la giusta fortuna, ebbene, nell’augurarsi che non capiti spesso, anche quelli tra noi meno disposti a giocarsi a sorte il proprio destino, devono ammettere che, se la fortuna non esiste nell’universo infinito retto dalle leggi della statistica, la fa maledettamente da padrona nel corso delle brevi vite mortali che ci spettano e nelle nostre giornate medie.
Ora, nel mondo perfetto in cui a una ingiusta sfortuna segue una immeritata fortuna e, a una giusta fortuna, segue sfortuna solo quando meritata, è scontato che non ci sia nulla di più nobile di una vittoria cercata lungamente, ma, nel mondo com’è il nostro, in cui la proporzione tra ciò che si dà è ciò che si riceve è così di rado legata a quello che si ha e quello che si è, mi chiedo, è così importante che ogni protagonista di un’epica vittoria debba conoscere anche l’amarezza della sconfitta?
Ciò piace alle masse, perché dà loro la sensazione che, lavorando sodo, sempre ammesso che gli vada, di lavorare sodo, un individuo apparentemente come gli altri possa conquistare la gloria. Essa è quindi alla portata di tutti quelli che sono disposti a lavorare sodo.
Si sa che non c’è molto di vero in questo e che spesso, il vantaggio iniziale, il talento, la predisposizione e, ovviamente, il tempo che si risparmia non dovendo pensare a nient’altro, sono, alla fine, difficilmente colmati da determinazione e disponibilità a sacrifici, propri o altrui.
La serie infinita di circostanze che agevola alcuni individui invece di altri, non dipende dalla bravura ma, bisogna averlo ben presente, dalla capacità di saper interpretare quell’attimo favorevole in cui, cavalcando la fortuna, si ha modo di vivere una vita che agli altri, anche bravi, anche più di loro, sfuggirebbe sempre.
D’altra parte, che quella capacità abbia a che fare con l’eventualità di vivere un’esistenza, per quanto celebre e celebrata, anche serena, è davvero da escludere.
L’ammirazione degli altri, non meno del loro disprezzo, è sempre illusoria… ed è pur vero che non è durevole, come fortuna e bravura… come molte altre cose, del resto… ma mentre l’ammirazione, durasse come e più dell’esistenza, verrebbe chiamata gloria, pur conferita a caso e senza merito, il disprezzo, anche derivante dalla più cieca invidia, parrebbe sempre troppo ingiusta punizione, a posteriori.
Alcuni di quei personaggi, divenuti celebri, hanno davvero dovuto vivere come si gioca una partita e, un po’ sfortunati con le carte, un po’ vittime di circostanze avverse, hanno perso.
Gli esempi sono molti. Fragili individui non sempre disposti a sottostare alle dinamiche dello show-business, poco attrezzati a resistere agli attacchi dei detrattori e, anche quando attrezzati, grazie ad orgoglio smisurato, autostima, arroganza e spregiudicatezza, non completamente refrattari ad alcuni dei logoranti effetti del successo, come la solitudine, la difficoltà di distinguere l’ammirazione che gli altri hanno per il loro ruolo, il loro personaggio, la smania di ottenere un souvenir del proprio beniamino e l’amore per lui, l’estrema difficoltà di godere, per lunghi periodi, dei pregi della riservatezza, dell’anonimato, del disinteresse della folla.
Incarnare un modello ideale, per quanto parrebbe allettante ai più, non è facile. Forse è il ruolo più difficile. Si muore facilmente, cercando di essere all’altezza, perché anche quando è chiarissimo che nessuno potrebbe mettere in discussione la qualità di uno di quei modelli, fosse solo la qualità della loro fortuna, in molti non resistono e lo fanno, sminuendola deliberatamente, disprezzandola apertamente, preferendo oscurare una luce e vivere al buio piuttosto di essere abbagliati, volesse anche dire che si deve oscurare il Sole, che ci serve a sopravvivere.
Certa gente non ce la fa. Non può reggere che vi sia chi vince solo per la congiuntura positiva.
Di loro, fortunatamente, anche se i motivi, che impediscono loro di ammirare quei modelli proposti alle masse, sono spesso sensati, si dice comunemente che sono invidiosi, che rosicano, vedendo il successo momentaneo venerato in vece del loro zelo, della loro costanza. Li chiamano così, perché non si sentono responsabili dell’essere in ombra, e valutano quindi sproporzionata la rilevanza tributata a chi si trovi in favore di luce o, peggio, in grado di irraggiare a sua volta.
Invece, le rigide regole che reggono e governano la natura, in assoluto, trovano, nella vita di tutti i giorni, meravigliose eccezioni, splendide trasgressioni. Relatività, che sarebbero smentite in eterno, hanno la ragione del caso limite, le scuse dell’unica colpa e, naturalmente, tutte le attenuanti.
Non siamo costretti a idolatrare le pretese divinità altrui, non siamo obbligati a contribuire al coro tributato a talenti che non ci sentiamo di riconoscere ma, a disprezzare puri fenomeni nel loro genere, siano solo belli e giovani, carismatici e sensuali, diamanti grezzi o fiori al sole; siano una sola di queste cose, di cui non hanno nessun merito, o tutte insieme e, soprattutto, ci piacciano o no, non sembreremo spettatori disillusi, ma sconfitti delusi e, la nostra sconfitta, non sarà solo amara, ma pubblica.
Lunga vita ai Maneskin.