• Accidia

    Date l’impressione di annoiarvi a morte, di non godervi neppure la dolcezza di crogiolarvi nei vostri vezzi, nei vostri vizi.

    Sembrate astiosi, biliosi, inaciditi, inariditi come certi terreni quando, dopo irresponsabili stagioni di poco lungimiranti colture intensive, sono definitivamente depauperati e tristemente destinati alla desertificazione.

    La vostra inedia vi tormenta, come chi è costretto a sentire la stessa lezione dopo cento volte, come chi debba mangiare pur essendo sazio… ed è evidente e, sappiate, né siete artefici anche nel male. Solo, non ne siete colpevoli, perché ci siete nati, nella vostra noia, nel tedio inerte e impotente.

    Non è colpa vostra essere malati e certe volte non lo è neppure il fatto che non lo vediate… perché come può desiderare di curarsi, chi pensi di stare bene?

    Ma io vo vedo, come voi vedreste me, com’è vero che i difetti più riconoscibili sono quelli che non abbiamo.

    Tuttavia, ve lo dico con sincerità, come se mi fosse utile tentare di aiutarvi, provate a guardarvi in prospettiva: vi gioverebbe non ascoltarmi? Avreste qualche vantaggio nel perseverare a non reagire?

    Succederà che al confronto con gli entusiasti, gli ottimisti, quelli che hanno fame, curiosità e voglia, voi, accidiosi e incontentabili, sarete sempre secondi.

    Vi preferiranno i giovani, anche se siete giovani a vostra volta… gli inesperti, i neofiti e gli smemorati, perché il vostro disamore, lo sguardo disincantato di chi sa far paragoni col passato e confronti impietosi con tutto ciò che a voi pare simile e prevedibile, alla lunga, pur tra innegabili e direi momentanei motivi di stima, in chi vi ascolti, senza percepire da subito l’odore marcescente del vostro innato sarcasmo, provocherà diffidenza e avversione. Quando tutti capiranno che la vostra, più che capacità di critica, è avvilita denigrazione, ci si annoieranno e chiunque vi ascolti per troppo tempo, anziché capirvi, preferirà evitarvi. Annoierete voi stessi e gli altri, come inesorabilmente fanno i vecchi, che dicono le stesse cose parlando di oggetti diversi e, chi li ascolti, non riesce a capire la differenza e, stanco di sentir ripetere canzoni tristi, cerca consolazioni in stornelli banali, forse, ma non acidi, irranciditi e senza spontaneità.

    Nessuno ama a lungo percorrere il limite del baratro, come fate voi. Quella che è una esigenza, alimenta sé stessa delle vostre ansie e dell’altrui curiosità.

    Parrebbe che siate nauseati. Piluccate senza appetito i resti del vostro piatto preferito. Vi sforzate di ingerire il boccone, ma siete talmente sovralimentati che, come affetti da bulimia, siete pronti a denigrare, a sputare senza pudore, nel vostro stesso piatto.

    A domanda, rispondete meccanicamente, con frasi già sentite mille volte, che il vostro è amore. Difendete il vostro orgoglio, il vostro gusto, il vostro diritto, ma date l’impressione di conoscere il formulario classico, usato per difendersi, senza aver mai lottato per ottenerli.

    Chiedete la precedenza senza sapere perché l’avete.

    Ma forse è questa la vostra natura, quella di associarvi, come remore, alla bocca di un predatore più grande di voi. Forse è quello il modo in cui assicurate a voi stessi la sopravvivenza, perché non ve n’è alcuna, per voi, lontani da quelle fauci

    Forse sfidate il baratro perché è quello, ciò che vaneggiate, salvo che vi sentireste inutili a cadervi soli, senza che nessuno vi tenga per mano e rischiasse, a sua volta, di farsi trascinare.

    Non è attrazione, non è apatia non è neppure noia.

    O forse sì…