• Abele II

    “Se mi uccidessero un figlio, vorrei che il colpevole pagasse con la vita”, dicono in molti. “Ha stuprato, ha abusato, ha tradito” sono tante le colpe che, secondo i più, meriterebbero la pena di morte.

    Ma questo vale solo perché la nostra prospettiva è a volte limitata, perché reagire è umano e, reagire con violenza, in certi casi, gode di attenuanti.

    Ci possiamo permettere questo ragionamento solo perché siamo dei privati cittadini, si tratta di un privilegio.

    Lo Stato non può ragionare così. Lo Stato è un organismo complesso, che si basa sul principio che i suoi membri si riconoscano in esso. Funziona come una famiglia, in cui i membri sono fratelli, come diceva Mameli. Per capire di che parlo dovremmo pensare di avere due figli. Uno è la vittima, l’altro il carnefice.

    Uccideremmo ancora il colpevole?

    Lo Stato non deve ragionare da figlio, ma da padre.

    In astratto il padre può trovarsi costretto a sacrificare un figlio? Certo che sì, ma non è la sua vocazione.

    La vocazione di un padre, come quella dello Stato, è salvare tutti i suoi figli, quelli che può.

    Se non capiamo neppure questo passaggio e ci mettiamo nei panni della vittima, le crudeltà da pagare con la vita ci sembreranno infinite. Se invece siamo padri, madri oppure siamo lo Stato, uccidere i nostri figli quando sbagliano troppo servirà solo a confermare i nostri fallimenti.

    È chiaro che sarebbe meglio non fallire, ma tutti sappiamo che capita e, per quanto possa sembrare impossibile, può capitare a tutti.
    Non si tratta di proteggere Caino, si tratta di salvare noi stessi.