• L’immortalità come scelta pragmatica

    I bambini non sono responsabili per chi viene dopo. Sono loro quelli che vengono dopo.

    A cosa dovrebbero pensare, se non a sé stessi?

    Certo, non è così per tutti e non lo fu mai ovunque.

    Non importa, tanto poi passa più o meno per tutti, senza una vera e propria presa di coscienza, senza che ne siamo consapevoli o che avvenga un vero e proprio cambiamento e, salvo per quelli che in effetti consumano ogni giorno della propria vita occupandosi di sé stessi, nell’attimo in cui diventa necessario occuparsi di qualcun altro – ad esempio i figli, anche se sono i figli di qualcun altro – improvvisamente ci pare la cosa più automatica del mondo che sia nel badare a chi viene dopo di noi il senso di aver badato a sé.

    Per chi è genitore, è facile, praticamente automatico: la sopravvivenza, il benessere e la felicità dei figli diventano una priorità e, soprattutto quando non siano scontati, diventano lo scopo principale. Tutto il resto passa in secondo piano: ambizioni, carriera, divertimento, cultura, salute e tutti gli impegni o gli interessi che sembravano costituire l’ossatura della nostra esistenza diventano rinunciabili. La vita stessa è rinunciabile, per chi debba pensare ai figli. Il diritto di precedenza è dei figli rispetto ai genitori, che vengono prima dei nonni, che vengono prima dei bisnonni, e questa dinamica, se chiediamo agli interessati, è chiarissima a tutti.

    Ok, anche in questo caso, vi sono probabilmente posti al mondo e ragioni che giustificano che non sia così automatico, il meccanismo.

    Occuparsi degli altri, quindi, non è una vocazione. Occuparsi del destino dell’umanità, procedendo a piccoli passi – come partecipare alla creazione e formazione dei prossimi abitanti del pianeta – oppure rendendosi artefici di grandi passi – come quelli di chi dedica la propria vita agli altri con abnegazione e sacrificio di sé – è lo scopo. Lo diceva anche Madre Teresa, ma io sono sempre stato troppo agnostico per collegare questo fatto a sentimenti d’amore divino. In realtà, quasi nessuno dà la vita per gli altri per guadagnare in paradiso, ma perché siamo progettati così.

    Con buona pace di chi trae beneficio dall’essersi piacevolmente intrattenuto e invecchia pago di sé stesso, o di chi pretende d’essere immortale o conserva l’ambizione di diventarlo, l’eternità mi pare più alla portata nella semplicità di cedere un testimone – per cui non si richiede eroismo e neppure consapevolezza – quando rinunciamo a noi stessi come individui da accudire, da vezzeggiare, da divertire. Seneca scriveva che non abbiamo nulla oltre al tempo; lo diceva per affermare l’importanza di non sprecarlo. Ma che noi disponiamo del tempo mi pare oggi sempre meno realistico. Invece, di vita ne abbiamo abbastanza per annoiarci e anche se difficilmente ci basta a fare tutto ciò che vorremmo, spesso essa è sufficiente a farci fare quello che dobbiamo, che non è moltissimo, in realtà.

    Ecco perché è cosi difficile saziarsi della propria felicità, mentre è tanto facile bearsi d’essere la ragione di quella altrui.

    Se dedichiamo la vita a agli altri, allora non c’è morte, non c’è apocalisse. Allora possiamo tutto e, allora, abbiamo tutto.

    Ecco un motivo per sorridere.