A un cane è sufficiente il tuo affetto. Esso adorerà la tua costanza, idolatrerà te e le tue debolezze umane. Erediterà le tue abitudini, la tua mediocrità, imparerà i tuoi ritmi, siano essi forsennati o no.
Un cane non desidererà di meglio, non paragonerà te a un padrone che non sia il suo, di padrone. Anzi, fedelmente, disinteressatamente, se non perseguendo interessi che, per un uomo, sono così a buon mercato che neppure si accorge di soddisfare, lo difenderà dai suoi nemici, fossero cattivi e spietati, ma anche santi, anche se fossero i più meritevoli tra gli uomini meritevoli.
Io purtroppo non sono un cane. Io faccio paragoni, anche se non vorrei, recrimino se mi accorgo di sprecare la mia stima, il mio amore, la mia semplice attenzione per qualcuno che non è colui che li meriti appieno. Non essendo un cane, ho molti dubbi al riguardo che davvero esista, chi meriti la mia attenzione appieno. Ciò accade indipendentemente dal fatto che io abbia o non abbia ragione.
Non è tanto male essere un cane, quando si è trattati male, perché un cane si accorge solo di rado, di essere trattato davvero male, ma, nell’essere nutriti, puliti e coccolati, è certo che nessuno, tra i cani, maledirebbe la sua sorte e sentirebbe di poter meritare di più dalle persone che ha intorno, mentre io, anche in una reggia, saprei trovare sbarre e ostacoli alla mia felicità e, non essendo un cane, riuscirei a non mostrare né riconoscenza né benevolenza.
Rapportarsi ai cani non comporta affatto l’essere meravigliosi, perché i cani, che sono i più intelligenti amici dell’uomo, non sono abbastanza intelligenti per discriminare. Democraticamente, accettano, come si accettano il sole e la pioggia, tutti i difetti dei loro padroni. Non sono intelligenti abbastanza da comprendere che il loro padrone non è affatto migliore di altri uomini. Così ogni rifiuto della società, ogni uomo anche meno che mediocre, è motivatamente timoroso di non riuscire a meritare l’amore dei suoi simili, ma pur certo di poter ottenere l’amore del proprio cane. Perché? Perché è più facile.
Gli umani si accorgono rapidamente della mediocrità degli altri. Sanno come sarebbe lecito aspettarsi di essere trattati dagli altri, che so, in una società civile, in una relazione sana, in una collaborazione professionale, in una famiglia e, se hanno sufficiente amor proprio e tu non ti comporti bene con loro, essi ti lasceranno solo.
Io, ad esempio, comprendo e riconosco ogni difetto degli uomini, così, salvo scegliere di dedicarmi sporadicamente agli animali, mi cimento, con difficoltà, va detto, nella ricerca di persone davvero meravigliose cui accompagnarmi. A esse, potrei provare a perdonare qualche piccolo difettuccio che hanno, dato che sono davvero pochi, i difetti che hanno, confidando che, essendo meravigliose, riescano, addirittura meglio di quanto io non farei, a perdonare qualcuno dei miei, di difettucci, che sono molti, invece.
Non so se sia proprio per egoismo, per la paura di non essere perdonato delle mie imperfezioni, che mi sento, talvolta, restio a farmi giudicare. Tuttavia, in quelle occasioni, mi pare di non avere bisogno di compagnia umana, le mie qualità mi paiono insindacabili, il parere altrui irrilevante e, l’affetto degli animali, molto attraente.
Vi sono addirittura momenti in cui essere giudicato mi pare ingiusto, ingeneroso. Allora sono disposto a risparmiare la mia opinione al prossimo, restando in disparte, evitandogli il più possibile la pressione, che non amo esercitare, ma che sento su me stesso.
Spesso però realizzo che il giudizio è inevitabile e, salvo cedere alla pigrizia, provo a lavorare su me stesso, coltivando le buone qualità, limando gli eccessi, stornando i difetti e cercando di mostrare quella che parrebbe la mia parte migliore.
In alcuni momenti, esternare questa parte migliore, mi pare un buon esercizio, nel raggiungimento di uno scopo socialmente nobile, che identifico col rendere alla società la versione più perfetta, meno difettosa, di me stesso. Non nego che questa sia un’opera che va spesso a rilento, con lunghe pause di riflessione e inversioni di tendenza, dato che trovo di rado modi durevoli di conservarmi nel giusto. Più spesso, un comportamento che mi parve giusto, per un po’, diventa ingiusto con il tempo e dannoso, alla fine, così, cambio rotta o ambiente… L’ho fatto spesso, in passato, di cambiare ambiente, ma credo che ciò rispecchi la mia natura e che ognuno abbia le sue debolezze.
A volte, si sta male, altre, meglio. Non sono certo di essere migliore, rispetto al passato, non sono certo che sarò migliore, in futuro ma, per certo, posso dire che tendere alla miglior versione di me stesso, anche in assenza di garanzie di successo, è una strategia che migliora l’umore, che nel mio caso è alto da molti anni. Questo non prova nulla e, forse, non è nulla, ma somiglia, in un modo che lascia ben pochi dubbi in merito, a un carattere come il mio, all’essere felici.
Alla fine, più cerco di essere l’uomo meraviglioso che vorrei che gli altri vedessero in me e che vorrei trovare negli altri, più sono paziente per i difetti altrui, meno mi pare di aver bisogno di essere perdonato e più facile mi risulta perdonare gli altri.
Non perdono me stesso perché sono pigro e non perdono gli altri perché sono generoso, ma faccio entrambe le cose perché ciò mi rende molto felice.
È utile, certo, ma non per tutti, abbinare, alla ricerca della meraviglia, la pratica della compassione. Qualcuno disse che fu essa, a uccidere Dio.
Io invece la ritengo una cortesia verso noi stessi, un’esigenza sociale inevitabile, nella creazione dell’essere meraviglioso che pretendiamo di divenire e che ci pare, così spesso, che gli altri, a parte i cani, sottovalutino.
La compassione è la principale componente del nostro primato, l’elemento fondante della meraviglia che sentiamo in noi. Essa consuma il nostro orgoglio e compone inesorabilmente i passi sul cammino verso noi stessi.
Infondo, a differenza di altri uomini, io non mi vedo scopo di qualcosa. Né il preludio, né l’epilogo, a dirla tutta. Non penso che creiamo nulla né diventiamo nulla.
Non è affatto vero che siamo ponti o navi e che partiamo da qualcosa per arrivare a qualcos’altro. Siamo probabilmente l’unica e isolata direzione che conduce a noi stessi, nel cammino che, avendone la possibilità, ci permetterà di realizzare il miglior “noi stessi” che sia possibile e posto che quel senso di compiutezza abbia un sapore che ci sia permesso gustare.
Ecco quello che ad alcuni manca: l’occasione di svelarsi a sé stessi, di conoscersi per ciò che, se non sono, potrebbero essere, di perdonarsi per il fatto di non esserlo, di non smettere di provarci e, lungo la via, di amarsi.
A quelli, consiglio di adottare un cane.