• Parlo da bianco

    Io non sono razzista.
    …Si, lo so, ci si aspetta un ‘ma’, dopo… Ormai è un meme e ogni genere di troglodita, di arreso alla naturale bestialità del suo essere, razzista o no, può prendere le distanze, oppure riconoscersi, leggendo. Del resto, inutile negarlo, può capitare a tutti di ricoprire il ruolo del troglodita. Dipende da come si è, ma anche da dove si sta e con chi.
    C’è chi è contro la pena di morte, ma… Chi è pacifista, ma… Chi è per la democrazia, ma…
    Non che sia sempre un male, anzi, infondo, accampare un umano dubbio è anche indice di saggezza per chi si immagina che non sia così remota l’eventualità di dover trasgredire una regola, anche ferrea. Ciò avverrebbe, con sorprendente regolarità, al semplice verificarsi della condizione che, in genere, si fa seguire a quel ‘ma’.

    A volte, in effetti, accade che si dica “io non sono razzista” solo per introdurre il motivo per esserlo, razzisti.
    Non è il mio caso, comunque, anche se nessuno è al riparo.

    Alla base, per non essere razzisti bisognerebbe innanzi tutto saper riconoscere che non siamo differenti per ragioni di nascita, neppure quando appariamo davvero agli antipodi, come potrebbe dirsi di una mosca e un’ape, pur non potendo fare a meno di notare che siamo presentemente abbastanza riconoscibili come biondi o bruni e che alcuni, per ragioni spesso molto valide, secondo evoluzionisti e non, appartengono a ceppi etnici dai tratti più marcati, facilmente riconoscibili e riconducibili a una provenienza geografica, mentre altri no.

    Poi potremmo discutere all’infinito sul fatto che i bianchi non sono davvero bianchi, mediamente, e i neri non sono neri, che ci sono neri più bianchi dei neri, ma anche dei bianchi e viceversa e che, a seconda delle relazioni tra popoli, i bianchi e i neri sono stati spesso tanto mescolati che avrebbe poco senso occuparsene.

    Ci si potrebbe anche azzardare a considerare importante conservare una tipicità, come per il prosciutto o il pecorino, che col mischiarsi di popoli che originariamente erano molto diversi tra loro e poi non lo sono più, finirebbe col perdersi e, ragionando più o meno negli stessi termini che ci portano a selezionare cani e cavalli, perché li vogliamo con alcune particolari caratteristiche, per ragioni soggettive ma che via via ci sono parse tanto oggettive da meritare un pedigree, potremmo spingerci a ragionare sul valore etico della purezza della razza di un certo gatto o di un certo umano.

    Si potrebbe criminalizzare o meno il culto della razza, attribuendo canoni di purezza a una certa tonalità della pelle, rispetto ad altre, dimenticando che la “razza ariana” veniva indicata anche sui documenti di nascita, come una specie di pedigree umano, che in alcuni posti del mondo ci si ama e ci si odia per il colore della pelle, ma ci si può amare e odiare moltissimo anche a prescindere, che l’ignoranza non è una malattia incurabile anche se gravissima e che le antipatie o le simpatie sono sempre temporanee, non fosse che genocidi, deportazioni e olocausti, per ragioni razziali, ce ne furono eccome e constatare che “tutto farebbe brodo”, per quanto vero, ci fa senz’altro correre il rischio di essere superficiali.

    A chi gioverebbe l’arguzia di opporre che si trattò di delitti aggravati dai futili motivi?

    Poco importa persino capire perché, se sei bianco, quando sono bianchi quelli che comandano, non essere razzista è irrilevante, come pretendere di essere democratico per chi ha il potere di decidere per gli altri o generoso per chi è ricco, anche se sei tra i bianchi che non decidono e non possiedono nulla.

    Peggio, perché la generosità di un ricco può far comodo ma la lungimiranza di un povero, per giunta di un povero di un’altra razza, è indifferente nella migliore delle ipotesi e molesta fino all’odioso negli altri casi.

    L’empatia mostrata da un bianco apparirà, per ragioni che sono culturali, direi tradizionali, come una non auspicata ostentazione di magnanimità.

    Per giunta, a dirla tutta, invidio davvero chi, in vita, non incappò mai in preconcetti e pregiudizi, non subendo il peso degli stereotipi più diffusi, dei canoni estetici dell’etica corrente, che so, generalizzando o adeguandosi pigramente a tendenze comuni palesemente empiriche.
    Parafrasando Nietzsche, in molti hanno preferenze tra gli insetti, figuriamoci tra le persone.
    Succede a tutti.
    Come non incorrere in errate valutazioni, a causa di ignoranza e pregiudizi? Ci si fida delle idee altrui, non avendo un’opinione o il tempo di informarsi su tutto. La conoscenza è un’isola di salvezza, ma l’ignoranza è sempre oceanica.
    Se non si sa, si sceglie, a volte, di ascoltare l’opinione più accattivante, che sembri meritare credito.
    Fa così chi è giovane e ignorante, oppure fragile e ignorante o semplicemente ignorante.
    io, ammetto, fui tutte e tre le cose.

    Forse lo sono ancora.
    Oggi, nessuno è ancora così stupido da dirsi razzista senza che qualcuno lo autorizzi a esserlo e, comunque, anche in quei casi, sono molti quelli abbastanza intelligenti da rifiutare di esserlo per forza.
    Davvero pochi sciocchi discriminano a lungo gli altri, se non è una precisa legge a prevederlo. Purtroppo, leggi di questo tipo, non mancarono mai.
    Se ci atteniamo ai fatti, dobbiamo arrenderci: non esistono individui identici; siamo simili, ok, ma non più di tanto. Fare la conta delle cose che abbiamo in comune, se non per stupirsene, al primo appuntamento, con un nuovo partner del Sagittario o del Capricorno, non sembrerebbe motivo sufficiente per nulla, men che meno per escludere o discriminare chi, quelle cose in comune, non le avesse.
    Io, poi, sono vissuto in tempo di pace, quella seguita alla Seconda Guerra Mondiale e al boom. L’insieme delle circostanze positive su cui si basa il progresso delle esistenze come la mia ha certamente un rovescio della medaglia, fatto del sacrificio di persone, di risorse, vittime, forse, loro malgrado, ma che, in questa parte di mondo, non ingenera veri e propri sensi di colpa.
    Alcuni uomini, forse i migliori, dicono che ci si dovrebbe ribellare alle ingiustizie. Essi sembrano credere che ribellarsi sia un preciso dovere civico e, chi non si ribella, sia complice.
    Invece, se ci guardiamo intorno, se ci guardiamo dentro, vediamo persone che resistono alla nausea, persino al dolore, causati dall’ingiustizia, tanto da abituarsi. Il più delle volte, le persone sopportano tutto, anche oltre il limite, ribellandosi fuori tempo massimo, senza più speranza, quando la forza, ormai, non basterebbe più ad avere la meglio, oppure soccombendo, ma consolati, perché c’è più virtù nel subire ingiustizia che nel compierla, come avrebbe detto Socrate.
    Alcuni non si ribellano affatto. Del resto, che senso avrebbe chiedersi quanti fossero i nazisti davvero risoluti sostenitori dello sterminio degli ebrei, o quanti coltivatori della Carolina odiassero i neri, o quanti membri della comunità bianca in Sudafrica fossero convinti che l’apartheid fosse giusta?
    Forse, i razzisti non riconoscono completamente le ragioni della vita agiata che desiderano.
    L’agiatezza è una condizione illusoria, tuttavia, nell’illusione che il terreno sia stabile, costruiamo case, nell’illusione che i principi che reggono le nostre società siano durevoli, pianifichiamo esistenze e, nell’illusione che i nostri propositi siano fermi, prendiamo decisioni.
    Alcuni di noi sospettano che nulla sarebbe eterno e poche cose realmente durevoli, eppure sono disposti a sostenere ruoli e idee tendenti all’infinito, con fatica, ma con mestiere, tenendo posizioni oltranziste, votandosi in eterno e, in molti casi concreti, riuscendo a porre gli obiettivi delle proprie azioni talmente in là, oltre il termine della propria esistenza, che chi ripone ogni sua aspettativa nei suoi soli confini, sembra loro superficiale, poiché dedica sé stesso a futili e non durevoli scopi.
    Siamo equilibristi. Ci teniamo dritti anche se ci costa, perché la creazione e la conservazione delle condizioni in cui coltivare e proteggere la nostra serenità richiedono l’abilità di incassare, mentre il mondo intorno a noi scaglia bordate, imponendoci balletti, salti mortali, compromessi e sacrifici.
    La ribellione è un atto di intelligenza, di integrità, ma anche di disperazione, mentre stare in equilibrio è sia il frutto della più apatica inerzia, sia un atto temerario.
    Noi, come vittime, pur da questa parte del muro, ora, aggrappati alla caviglia dei potenti, allora, eravamo quelli che potevano morire per una ragione qualsiasi: per la peste, per le guerre, per la povertà. Eravamo sacrificabili. Lo siamo stati per gli alleati e per fascisti. Siamo stati dominio dei Francesi, degli Austriaci, dei Prussiani, dei Romani, degli Spagnoli, degli Arabi, dei Galli, degli Unni, dei Longobardi.
    Quello che succede nelle dominazioni è che qualcuno domina e qualcuno soccombe… oppure sopravvive… Ecco, in questa parte di mondo, nella sorprendente coincidenza di casi fortuiti che ci ha risparmiati, fin qui, noi siamo quelli che sono sopravvissuti.
    Il nostro protezionismo campanilista, le nostre leghe, i nostri movimenti per la salvaguardia dei dialetti, hanno vite che nascono e si esauriscono nei cicli talvolta fallimentari delle carriere politiche, delle grottesche esistenze dei loro strenui sostenitori. Sono lodevoli come l’entusiasmo e, come l’entusiasmo, raramente durevoli.
    A noialtri, che ormai ci scaldiamo poco e ci raffreddiamo subito, fa un po’ strano, quando ci dicono che siamo razzisti.
    Di quale razza parlano? No, perché qui, le razze, sono passate tutte.
    Qui, le mamme, hanno partorito figli di tutti i colori.
    È un po’ per questo che non amo che mi si consideri bianco o nero …o razzista, dato che non mi ci sento … senza ‘ma’.
    Certo, è una posizione di discreta libertà, la mia; libertà condizionata, in cui tuttavia non mi trovo in quanto discendente di qualche nobile ma perché, formica, ho avuto la fortuna di non essere calpestato; perché, per gli schiavi che di sicuro annovero tra i miei avi, l’affrancamento, prima che per quelli d’America, in qualche modo, c’è stato.
    Se nessuno avesse autorizzato i contadini del Mississippi a credere che i neri erano inferiori, forse i contadini del Mississippi, al vento del Nord, che voleva spazzare via in un solo colpo l’economia del Sud, avrebbero opposto minor resistenza.
    La stupidità è trasversale, del resto, e contamina democraticamente sia i cervelli poveri che ricchi, sia uomini bianchi che neri, sia campagnoli che cittadini. Le persone si fecero convincere che era permesso odiare gli altri. È una cosa che succede ancora, in molti contesti.
    Dipende un po’ da quanto convenga.
    Furono molto strumentali tutte la leggi razziali, ma dirlo oggi non pare così intelligente, come è tutt’altro che arguto rilevare che tra noi c’è un muro, anziché chiedersi a chi, quel muro, serva.
    Mi dicono che, dalle mie parti, negli stessi anni in cui vigeva lo schiavismo, signorotti locali, a qualche titolo proprietari di terre, esercitassero il potere di disporre anche della vita di chi, ritenuto di rango inferiore, su quelle terre, nasceva. Questa storia, raccontata spesso al cinema e in letteratura, pare sia vera e che fosse vera anche nei regni vicini, nei ducati, nelle fattorie.
    “Sei nato sulla mia terra? Allora, come una vacca delle mie stalle e un cervo dei miei boschi, sei mio, lavori per me e ti consiglio di rigare dritto, altrimenti ti caccio… o ti faccio fare la fine delle bestie che non mi servono più”.
    Ci sono prove abbastanza certe del fatto che gli schiavi ci fossero e che avessero lo stesso colore dei re. Poiché la pelle era uguale, si diceva che fosse il colore del sangue, a fare la differenza.
    A quelle masse popolari, per secoli e salvo eccezioni, furono negate sia la libertà di decidere cosa essere o fare della propria vita, sia la speranza di riscattarsi.
    Non erano nere. Erano povere. Al mondo dell’epoca servivano proletari, braccia forti per i campi, forza lavoro per le miniere e le fabbriche.
    Gli straccioni senza speranza servivano.
    Vediamo bene che le cose sono cambiate molto, molto rapidamente e in molti luoghi del mondo, ma vediamo anche che, di straccioni senza speranza, ancora, si reclama il disperato bisogno, mentre gli ambiziosi, i competenti, i consapevoli del proprio valore, ecco, quelli non sono al momento richiesti e sarebbe meglio si spostassero più in là.
    Dovrebbero ribellarsi?
    Esistono situazioni al limite, per cui, sapendo di dover morire stasera o domani, pur nell’assoluta certezza di dover morire comunque, in molti sceglierebbero di vivere quelle poche ore in più.
    La dignità non è innata. Essa dipende, come la crudeltà.
    Agli schiavi toccò il destino che toccò ai più, come ai miei avi, bianchi, almeno da qualche centinaio di anni – prima non si sa… una fetta di popolazione che, a un certo punto, secondo alcuni, fu pari a tre quarti della popolazione mondiale.
    A quanto pare, la schiavitù c’è ancora. Essa riguarda interi popoli, sottomessi per aver perduto guerre, che da noi, anche se interessano centinaia di migliaia di persone, sono ancora dette ‘tribali’.
    Ogni azione che conduca, volutamente o no, alla dequalificazione di un popolo, tale da imbruttirlo, impoverirlo, incattivirlo, rendendolo meno degno, in paragone a noi e al nostro progresso, conduce al razzismo, creando spaccature che, come nella testa dei contadini del Mississippi, avranno bisogno di generazioni per riaggiustarsi.
    Anche per questo, le società dovrebbero guardarsi bene dal tracciare confini troppo netti tra territori, erigere barriere di ogni tipo, anche e soprattutto ideologiche, senza prevedere porte, finestre e piazze accoglienti e accessibili a tutti.
    Ragioni storiche, demografiche, geologiche e climatiche, alla base delle differenze nello sviluppo delle ideologie e dei modi di pensare dei popoli, ce ne sono abbastanza, tanto che non sembrerebbe necessario creare altre fratture. Parrebbe il caso di rivedere alcune strategie e alcuni obiettivi di breve periodo, forse…
    Eppure…