• Hater

    Amo gli animali ma preferisco le persone, anche se non si direbbe…
    Non amo frequentarle tutte insieme, ok, perché non so gestire le amicizie… mi passano i decenni come singoli giorni, poi mi ricordo di qualcuno e gli voglio bene come se l’avessi sentito il giorno prima, dieci anni dopo…

    Non amo i gazebi, le raccolte di firme, le petizioni e ogni altra occasione, creata per sensibilizzare i passanti, finisca con l’inflazione degli entusiasmi e l’assassinio della buona educazione.

    Non sopporto le discoteche e tutti quei posti in cui la conversazione è ostacolata da musica che non sia scelta da me.

    Non mi piace andare ai concerti e agli spettacoli in cui si è costretti a condividere lo spazio con migliaia di persone. Anche assistere a eventi unici diventa difficile nella ressa e in genere detesto ognuna di quelle feste organizzate per farti sentire un tutt’uno con gli altri e che invece finisce col generare l’infausta sensazione di non esistere quasi, anche in chi nei giorni medi si ama e si considera importante.

    Non mi piacciono le serie TV, per la stessa ragione per cui odio da sempre persino i cartoni animati quando, al termine dell’episodio, annunciano che, il seguito, lo si vedrà nella prossima puntata… per lo stesso motivo per cui non finivo mai un album di figurine o una collezione. Odio il solo concetto di collezione completa perché corrisponde, perlomeno nella vita di chi ne abbia una, a una vera e propria ipoteca sul tempo che passa tra il primo fascicolo e l’ultimo.
    Le serie TV, poi, mi sembrano esistere per dar modo, a chi le fa, di dire a sua madre che ha un lavoro. Sceneggiatori, autori, macchinisti, costumisti e attori tutti, ora possono senz’altro dire di averne uno, con tutto che, a chi chiedesse loro che lavoro facciano, risponderebbero “l’artista”, banalizzando sia l’arte… che il lavoro.

    Come tutto ciò che dà assuefazione, le serie nuocciono probabilmente alla salute… la mia, almeno.

    Non mi piace il rap, non mi piacciono i rapper, come tutte le correnti e i derivati del rap, nonché tutti i fan, gli estimatori e i seguaci del rap.
    Ok, sono per la libera espressione, in musica come nel resto delle cose della vita e, anche se non vedo libertà nella gratuita irriverenza, sono spesso disposto a pazientare, in attesa che un artista, anche se col rap, trasmetta qualcosa anche a me, ma comprendo che è anche colpa mia se non sono più destinatario di nessuno dei messaggi di provocazione, disubbidienza e generale disagio di ragazzi che hanno oltre trent’anni meno dei miei.

    Qualche rara eccezione può indurmi a non cambiare stazione, ma nel caso del rap, l’onere non giustifica quasi mai la sofferenza per la mole di filastrocche lagnose ricolme di piagnistei puerili e traumi post adolescenziali in cui giovinastri e pupe che esistono realmente solo sulle automobiline dell’autopista e nell’hinterland, qualunque sia la città di cui l’hinterland è hinterland, propongono rime insulse, ideuzze da trogloditi che chiamano la compagna “tipa”, per cui basterebbe avere conseguito un diploma di scuola media per essere in grado di rimpiangere il Rinascimento, ma che, anche quando laureati, si compiacciono di assonanze con parole straniere che suonano becere anche nei rispettivi Parsi e dello sdoganamento del turpiloquio, come un tizio che conoscevo io, che prendeva confidenza scoreggiando.

    Non amo che ogni tendenza creativa debba essere catalogata in generi riconoscibili, assimilabili ad altre cose già note. Ho sempre trovato una barbarie definire gli scrittori realisti, ermetici, futuristi. Credo che un artista non possa che trovare fallimentare l’idea di essere incluso in una categoria, come se gli venisse stretto al collo un cappio o, nella migliore delle ipotesi, una sorta di giogo, di prigione da cui, presto o tardi sarà necessario evadere.

    L’etichettatura equivale, per chi sposi l’arte, all’adulterio.

    Non amo che nessuna manifestazione fenomenologica debba essere ricondotta a categorie già esistenti di cui farebbe parte; sia che si tratti di una corrente letteraria, che di una religione, che di un movimento politico. Sono particolarmente ostile a definizioni come “post-avanguardista, sardina, indie, sport-utility-vagon, ma mi fermo, perché ricapitolarle a mente, per paura di ripetermi, mi provoca sofferenza.
    Diffido delle persone che seguono le mode, soprattutto i sedicenti opinion leader, che fanno vanteria di interpretare una tendenza prima degli altri, per il fatto di usare un prodotto per primi, mostrando di non avere nulla di inedito se non, e la pecca è in questo, l’autocompiacimento per essere pecora furba tra le pecore.

    Per lo stesso motivo diffido delle persone che utilizzano, per prime, neologismi creati da altri, sancendo la propria sudditanza e, a mio modo di vedere, certificando la differenza tra i primi e gli eterni secondi.
    Non amo il calcio. Non ho una squadra del cuore, detesto gli sport che richiedono vi sia una falange estremista di tifosi come gli ultrà.
    Non amo il motogp, la F1, il wrestling e ogni forma di rappresentazione sportiva che trovi ragione d’essere nella sua spettacolarizzazione e nella sua esibizione, anziché nella sua realizzazione.

    Per questa ragione diffido dei sistemi che si basano non sulla sensatezza delle finalità ma sul fascino del contesto, ad esempio Disneylsnd, dove ci sono più bambini in coda per una maglietta con le orecchie che sulle giostre, o Las Vegas, dove milioni di persone si inebriano dell’esperienza che meglio riflette il sogno americano, ma di fatto giocano alle slot, come i pensionati ludopatici nei retro dei bar.

    Non amo la birra. Ha per me lo stesso sapore del pane, sciolto in acqua frizzante, dopo due giorni.

    Non bevo poi volentieri una bevanda alcolica che, solo per lenire i freni inibitori, richieda l’ingestione di svariati litri, se non perché mi piaccia; non in presenza di alcolici che mi ubriacano con un bicchiere e che il mio gusto preferisce.

    Qui ho un po’ paura… odio il tiramisù. Odio anche i bignè e di conseguenza odio il profiterole. Sono goloso, ma abitudinario.

    Sperimento, ma se devo selezionare il dolce preferito, io che non ho la fortuna di non ingrassare, non sprecherei mai il mio bonus con una Saint Honoré o con una Sacher.

    Non mi piacciono gli amaretti, la pasta di mandorle, la cassata, la pastiera, il panettone, il panforte. Amo i cantucci e, in certe situazioni il vin santo, ma odio i cantucci col vin santo… insomma, se nella vostra città c’è un dolce tipico, è probabile che a me non piaccia.

    Odio il pandispagna.

    Odio gli spinaci, i rapanelli, le barbabietole… il gorgonzola, il vino frizzante…

    Odio i nervetti la trippa e tutte le interiora… penso che, se abbiamo la possibilità di trovare buone frattaglie e scarti, sia una bella fortuna in senso darwiniano, perché ci dona delle chances, di evolverci più a lungo, anche in caso di carestie, che non avremmo, altrimenti, ma penso anche che il primo boccone, in natura spetti al miglior predatore, mentre le larve mangiano le carogne.

    Mi fa sentire meglio pensare che il mio gusto schizzinoso, che mi fa prediligere solo tagli pregiati, avrebbe a che fare con la mia nobile origine che annoverava antenati tra i migliori predatori e non tra le umili larve e, pur sapendo che non saprò mai se faccio bene a essere felice, anzi, pur sospettando che il mio gioco sia solo un gioco, sono felice… tanto basta alle menti semplici come la mia, per compiacersi.

    Amo gli animali, dicevo, ma sopporto, sperando, incontrandolo, che passi presto, i padroni dei cani, quando paiono volerti infettare dell’affetto che nutrono per le loro bestiole, sorprendendosi, ed è proprio questo che mi avvilisce, che abbiano fame, sete, sonno e che si comportino secondo saggezza, quella di cui dispongono, che non è certo paragonabile a quella che mi aspetterei dagli umani, per mangiare, bere e dormire.

    Sopporto a malincuore le cacche dei cani sulla mia via, l’odore di urina sul marciapiede, il lieto latrare incondizionato del cane, quando passano il bambino, il gattino, il vicino, il lontano, l’alieno o nessuno.

    Detesto appassionatamente il mio sorriso benevolo, mentre corro nel parco e fingo di avere in serbo coccole per il cane slegato e lontano dal suo padrone, mentre egli chiacchiera con qualcuno e lancia il suo meccanico “non fa niente, è buonissimo!” verso di me, spingendolo ancor più a fare il suo dovere di cane e tenermi alla larga, ringhiando. Io sorrido, per rabbonirlo, sapendo che il cane è stupido e non capisce che io non sto scappando, che mi rincorrerà fino a mordermi una caviglia solo perché può farlo, essendo slegato, mentre io devo fermarmi, farmelo amico, quando mi bastano i miei, di amici, cercare di evitare di incorrere, una volta morso, nel commento benevolo dell’animalista che osserva:” Hai sbagliato tu: avresti dovuto fare così e così..” – perché il consulente di psicologia comportamentale canina è sempre nelle vicinanze – e provare a riprendere la mia andatura.

    Detesto i superstiziosi, che condizionano il mio modo di vivere, di prendere le decisioni, persino di essere, per la ragione inevitabile che “ci sono cose che non sappiamo”, fidandosi proprio di quelle che sanno meno e reclamandone il valore per tradizione e costume.

    Mi fermo qui…

    Questo testo è doverosamente lasciato incompiuto, per poterlo integrare in seguito, a piacimento… perché è chiaro che non ha senso odiare nulla, salvo per momentanea stizza, che pare sia umana, per un minuto o due e non oltre, altrimenti è ira che, come diceva quel tale con la barba, “è un vizio brutto”.

    Sono infinite le cose che si possono odiare per un minuto.

    La lista andrebbe allungata o accorciata in ragione del sopraggiunto odio o del ritrovato amore e, a pensarci, ogni argomento ha almeno un motivo di disprezzo e almeno uno a favore… amore… favore… …odio le rime baciate… l’ho già detto?