• L’oblio

    C’è stato un tempo, nella mia vita, in cui ho creduto che la mente, come un recipiente, potesse accogliere ogni mia esperienza; che, come dicono alcuni, vi si catalogassero i ricordi, selezionando quelli salienti, meritevoli e utili.

    Pensavo che, nella mente, potessimo duplicare l’universo, per ciò che ci appare, che in uno spazio nebuloso e oscuro, sconfinato e misterioso, le nostre esperienze andassero progressivamente a definire il nostro personalissimo firmamento, fatto di luminosi punti fermi e che, nel corso della vita, quelle esperienze avrebbero segnato sempre il passo, esattamente come le costellazioni guidavano i marinai.

    Non sono certo che sia così per ogni uomo. Lo è stato per me, tanto che, inconsapevole delle dinamiche celesti, sospettavo che ci sarebbe stato un momento, che immaginavo potesse coincidere con l’ultimo, in cui sarei stato pervaso della luce della consapevolezza da me accumulata nel corso degli anni e che, se fossi abbastanza bravo, tutto sarebbe stato chiaro, allora, per la miracolosa illuminazione del cielo che io stesso, volontariamente o no, avevo dipinto.

    Non direi la verità se dicessi, ora, che avevo qualche certezza ma, pregiudizi, più d’uno. A posteriori, sottostimavo il potere dell’inesorabile erosione della memoria.

    Mi sono sempre dimenticato ciò che avrei voluto o dovuto ricordare, anche da giovane. Come l’acqua, che scorre veloce sui terreni argillosi, sfuggendo alla volontà che la vorrebbe trattenere, la memoria di certi avvenimenti e di certe nozioni che avrei voluto sempre conservare per me, pur provandoci, non riuscivo a fissarla. Escogitavo laboriosi stratagemmi, come dighe e argini, affinché i ricordi mi restassero impressi. Ero costretto a lavorarci con fatica, pena il perderli per sempre. Sapevo che altri non avevano problemi ad assorbire informazioni per cui il mio cervello pareva impermeabile e pensavo, a volte, fosse un altro limite evidente della mia intelligenza.

    Probabilmente è così, ma non fu a lungo un cruccio, soprattutto dal momento in cui capii che sono poche le menti permeabili a ogni nozione, che dipende dal momento, dai gusti, che, cosa che mi consolava, informazioni che io imparavo senza sforzo o davo per sapute, magari per cui non avrei cambiato il mondo, d’accordo, ma che mi regalavano attimi di compiacimento, altri neppure le percepivano.

    La memoria, quindi, è come l’acqua. Infatti, la mappa dei fiumi e dei laghi si disegna principalmente per la forma del territorio, è vero, ma non è quello l’importante. Quando vi fosse acqua sufficiente a coprire tuto, allora ogni mappa apparirebbe uguale a tutte le altre. Territori diversi avrebbero molta acqua in certi punti e meno in altri, ma chi guadasse dall’alto non troverebbe differenze.

    Credo che valga anche per la conoscenza. Un sapere che inondi la mente sovrastando ogni picco e ogni profondità, rende infatti simili gli uomini, anche se molto diversi tra loro, all’origine. Nella conoscenza, essi sarebbero uguali come, per ovvi motivi, nell’inconsapevolezza, non si somiglierebbero mai abbastanza. Maggiori sono le conoscenze, minori le differenze.

    Immaginando che il modo in cui la conoscenza va di pari passo col trascorrere degli anni – valesse per tutti- vedevo la fine dell’esistenza come il concretizzarsi di un principio, quello dell’uguaglianza tra gli uomini, che nel corso della vita ha davvero rare occasioni di farsi apprezzare; così, pervaso da un senso di tranquillità forse prematuro, vivevo la sensazione che il sapere fosse in continua evoluzione, come una struttura cui, dedicando tutto il tempo che la vita concede, sarebbe comunque, sul finire, più solida e imponente che nel mentre.

    Invece il sapere sfugge.

    L’usura, le patologie, l’invecchiamento e anche la volontà, a volte, ci portano a scordare persino i ricordi che pensavamo indelebili. Ciò ha ragioni fisiologiche già chiarite, che hanno a che fare con la premorienza delle cellule cerebrali, rispetto all’individuo che le ospita. Di fatto, siamo custodi da vecchi di un cervello molto meno recettivo che da giovani e, per quanto le nostre capacità di ragionamento si basino soprattutto sul fitto intreccio di sinapsi che siamo riusciti ad attivare e che questo intreccio persista anche quando le cellule vengono meno, a volte abbiamo la sensazione sgradevole che un ponte dorato, che prima ci conduceva direttamente a un ricordo prezioso, a un meccanismo studiato nel dettaglio che sembrava eternamente impresso nella memoria, possa crollare da un momento all’altro e la via maestra verso il nostro sapere sia definitivamente preclusa. Ci sfugge il nome di una persona che pure abbiamo amato, oppure ci sorprendiamo a spiegare a un amico chi sia l’attore di cui non ricordiamo il volto, visto in un film di cui non rammentiamo il titolo, che, se rivedessimo ora, riguarderemmo con rinnovato piacere, dato che non riusciamo a farci venire in mente come finisse.

    Il sapere sfugge, a settant’anni più che a cinquanta, più che a venti, come una monetina che si perde in auto, tra il cruscotto e il sedile.

    Forse deve essere così. Forse, ricordare fa parte di quella serie di cose che è bene che facciamo quando è il momento è buono, come cogliere un frutto, vendere al Nasdaq, fare un figlio.

    La lenta agonia dell’universo, nella sua deriva dal suo centro, potrebbe, ancora una volta, servirci da riferimento. Essa ci sembra eterna e i suoi punti luminosi vitali come se non dovessero perire mai. Eppure, dovremmo immaginare che non sarà sempre così, che ciò che brilla oggi, un tempo non esisteva e che, presto o tardi, svanirà; che sulle cinque punte di Cassiopea, come sulle nostre granitiche certezze, scenderanno le tenebre; che la Stella Polare cesserà di occupare il suo posto al nostro orizzonte e ricoprire il suo ruolo centrale nel cosmo.

    A un certo punto realizziamo che le esperienze di cui facemmo tesoro, i nostri ricordi più cari, la nostra cultura, non potranno brillare per sempre come, se abbiamo avuto la fortuna di accendere mai alcune di quelle luci, forse fecero un giorno.

    Tutto affievolisce; sbiadiranno le forme e i colori più vividi delle più radicate memorie scoloriranno, finché i confini tra gli uni e gli altri diverranno imprecisi, sovrapposti. Solo nel confuso insieme delle cose, da uno sfondo nero senza dimensioni, emergeranno, talvolta con dolcezza, come le stelle all’imbrunire, talvolta improvvisamente, come quando rinveniamo da un incubo o rspiriamo dopo una lunga apnea, per quello che erano.

    Invecchieremo progressivamente, avendo forse il tempo di controbilanciare il nostro degrado, elaborando scorciatoie e itinerari alternativi alle nostre circonvoluzioni mentali, e saremo forse in grado di fare ognuna delle cose che abbiamo imparato, nel frattempo divenute tanto parte di noi da rendere superflua ogni nozione, che comunque non ricordiamo, e inutile ogni spiegazione, dato che non sappiamo più darne.

    Oppure, senza accorgerci di nulla, da un giorno con l’altro, vivremo il tracollo di noi stessi, perdendo quel bagaglio di informazioni che nessuno, a parte noi, probabilmente, troverebbe così prezioso, ma che ci riempirebbe di dolore sapere di aver perso, realizzando che il ricordo era l’unico legame che avevamo con un momento o un capitolo della nostra vita, fossero le foto nell’hard disk o un vecchio diario. Perso quello, anche la vita, che non siamo più in grado di ricordare, sarebbe come se non l’avessimo vissuta affatto.

    Forse vi sono alternative alla vita come la pensiamo e l’eco dei nostri pensieri, il prodotto delle nostre emozioni, potrà, un giorno, superare noi stessi, come un figlio sopravvive al padre. Forse la vita di un pensiero fluttuerà all’infinito, nell’infinito, come la luce di una supernova raggiunge per noi, a migliaia di anni luce, il massimo splendore solo per la sua esplosione, con ne percepiamo l’eco, il riflesso e ciò basta a riempire tutto il nostro orizzonte.

    La eco della nostra memoria forse risuonerà, come una musica che oggi solo noi siamo in grado di riconoscere, ben oltre gli anni della nostra esistenza, componendo la sostanza stessa dell’universo infinito.

    Forse, al contrario, diverremo immemori involucri del nulla, corpi superstiti di un’esistenza terminata con l’inesorabile progresso della nostra perdita di coscienza, spettatori assenti di vite senza vita. La nostra fine ci assegnerà il giusto spazio eterno nell’ombra e noi saremo, infine, anziché stelle che illuminano il cammino, fantasmi nell’oblio.